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Alberto Burri a CastelbassoCASTELBASSO, Palazzo Clemente. 21 giugno – 30 agosto 2009 ALBERTO BURRI. Equilibrio Struttura Ritmo LuceBURRI, UN CLASSICO DELLA MODERNITÀ Grande classico della modernità, Alberto Burri ha saputo rievocare le angosce e le lacerazioni esistenziali di un’epoca storica, e in generale dell’uomo d’oggi, attraverso un linguaggio assolutamente originale capace di trasformare/trasfigurare la concreta e vissuta fisicità dei materiali della realtà nella dimensione sospesa e affascinante dei suoi quadri, che nascono da un’elaborazione formale non imposta dall’esterno, ma direttamente connessa alla natura intrinseca dei materiali. Nel 1951 firma, insieme a Ballocco, Colla e Capogrossi, il manifesto del Gruppo Origine che si caratterizza da un’opposizione al realismo, al postcubismo e a certo astrattismo geometrico, e dalla volontà di “fare dell’arte non figurativa un mezzo”. Ma il gruppo ha vita breve. Burri è medico e inizia a dipingere da autodidatta nel campo di prigionia di Hereford (Texas). Rientrato a Roma nel 1946, entra in contatto con l’ambiente intellettuale e artistico, e fin dall’inizio avvia la sua ricerca in inediti termini non figurativi, scoprendo le potenzialità espressive diretta della materia, anche grazie a Enrico Prampolini, eclettico e geniale protagonista del secondo futurismo. Di grande importanza per Burri è quanto scrive Prampolini nella sua Introduzione all’arte materica (1944): “Si trattava di portare alle estreme conseguenze il concetto di sostituire totalmente e integralmente la realtà dipinta con la realtà della materia (…) L’arte polimaterica non è una tecnica ma – come la pittura e la scultura – un mezzo di espressione artistica elementare il cui potere evocativo è affidato all’orchestrazione plastica della materia. La materia intesa nella propria immanenza biologica, come nella propria trascendenza formale. La materia/oggetto, nei suoi aspetti rudimentali poliespressivi, dalla più umile e eterogenea (quasi relitto di vita) alla più raffinata e elaborata…” Ma Burri interpreta a modo suo queste indicazioni, e il suo lavoro non ha niente a che fare con quello di Prampolini, che infatti quando vede i “Sacchi“ li rifiuta senza capirli. Fin dall’inizio Burri concepisce l’opera come oggetto autonomo, autoreferenziale, nel senso che non rappresenta altro che se stessa, dove le materie di cui è costituita non nascondono la loro identità, ma la esibiscono all’interno di una studiata articolazione compositiva. In questo senso non si può parlare di informale e di materia pittorica che si carica attraverso un’azione pittorica gestuale, dell’energia esistenziale dell’autore. Del 1948-49 sono i “Catrami“, i primi esperimenti di superficie materica, con spessori, grumi, e il dominio del nero, che con il rosso e il bianco rappresentano i colori che saranno sempre quelli fondamentali. Seguono nel 1950-51 le Muffe, con spesse incrostazioni sabbiose, e i Gobbi. Questi ultimi sono decisamente innovativi perché la superficie della tela, grazie all’inserimento sul retro di elementi duri (come dei pezzi di legno) forza la convenzione bidimensionale attraverso escrescenze che enfatizzano l’impatto fisico del quadro. I primi Sacchi del 1951 (gli ultimi del 1961) rappresentano una straordinaria invenzione: la tela di vecchi sacchi di iuta grezza, con strappi, cuciture, nodi, buchi e “ferite”, e con il suo carattere vissuto acquista valenze organiche, ma allo stesso tempo si trasforma in elemento espressivo formale, in connessione e contrapposizione con le parti di superficie dipinte in nero, rosso e bianco. Il fascino inquietante, aggressivo, ma anche raffinato di questo materiale sta nel fatto che qui materia e forma coincidono, e la tela di iuta prende in qualche modo il posto della tela, intesa come supporto classico della pittura. L’affermazione internazionale di Burri arriva presto: dopo la presenza nel 1952 alla Biennale di Venezia, nel 1953 presenta una personale alla Stable Gallery di New York, dove espone anche opere in collettive al Guggenheim Museum e al Museum of Modern Art. Nel 1955, il critico americano J.J. Sweeney riconosce l’originalità dell’artista italiano: “Quello che per i cubisti si sarebbe ridotto alla parziale intensificazione di una composizione dipinta , a una protesta per i dadaisti, a un Merzbild per Schwitters, per Burri diventa organismo vivente: sangue e carne”. Dopo i Sacchi, Burri lavora a vari cicli di opere, sperimentando altri materiali e tecniche. A partire dal 1957 inizia le sue “Combustioni“, utilizzando la fiamma ossidrica per modificare e “martoriare”, con bruciature e ferite, superfici in plastica trasparente, rossa o nera. Un tipo di intervento messo in atto anche nella serie dei “Legni” (1958). Il fuoco, con la sua carica di tensione tragica, diventa così per la prima volta un mezzo espressivo primario per creare “pittura”. La fiamma ossidrica è utilizzata poi anche in termini più “normali” per realizzare i “Ferri” (1958), grandi rilievi costituiti da pezzi di lamiere d’acciaio saldati. Nel 1963 inizia a lavorare ai “Cretti“, superfici bianche o nere costituite da uno strato di materia (bianco di zinco o terre, con vinavil) che seccando dà vita a una organica texture di crepe, come quelle del fango seccato. Qui l’articolazione formale è determinata soltanto dal processo naturale. Negli ultimi due decenni, la ricerca di Burri si incentra sui Cellotex, dove l’espressività primaria dei materiali è quasi azzerata nella definizione di configurazioni formali di matrice liberamente concretista. Impressionante è l’effetto unitario che l’opera di Burri produce nel suo insieme, per la presenza di strutture formali costanti, pur nella diversità dei materiali utilizzati. A emergere con evidenza è una complessa logica di scansione spaziale che si articola attraverso la giustapposizione di larghe superfici limitate da confini abbastanza definiti: ne risulta un singolare effetto di equilibrio instabile, un senso di sospensione che trasforma la grezza materialità di sacchi, ferri, plastiche e legni, in sostanza pittorica, tanto quanto le stesure dei bianchi, rossi e neri, che in molti lavori entrano in gioco come contrappunto “puro”. Si può parlare di una raffinata sublimazione dei materiali all’interno dello spazio scenico della composizione. Un aspetto cruciale in Burri è la connessione fra la struttura e tramatura fisica dei materiali utilizzati e quella che rimanda allo schema compositivo. Quest’ultimo è come sotteso, perché non appare impresso dall’esterno, ma direttamente emergente dall’interno della materia (cuciture, saldature, bruciature, screpolature dei cretti) e come conseguenza del rapporto di giustapposizione delle varie parti, tra cui anche le stesure dipinte. Che la questione delle giunture, delle connessioni di superficie (in quanto elementi cruciali della tensione formale estetica) che fanno del quadro un sistema un sistema organico, siano per Burri d’importanza fondamentale appare evidente nella serie dei Cellotex. Qui l’artista, maestro nell’utilizzazione dell’espressività pulsante dei materiali grezzi. Nel 1991 l’artista aveva polemizzato con la critica. Secondo lui i critici avevano sempre dato troppa importanza alla materia, esaltandola e trasformandola in “Materia”. Quando un’opera riesce, ha detto, il risultato deve essere: “equilibrio, struttura, ritmo, luce”.
LA MOSTRA DI BURRI A PALAZZO CLEMENTE Per Burri, sacchi, catrami, muffe, lastre di metallo, plastiche, legno, caolino, cellotex, hanno sempre avuto una funzione per molti versi analoga a quella dei materiali tradizionali della pittura, dato che la sua intenzione è sempre stata quella di fare della “pittura”, sia pure con altri mezzi. In questo senso il curatore intende proporre una lettura critica tesa a far comprendere al pubblico l’essenza (allo stesso tempo “classica” e sempre attuale) dell’invenzione artistica del maestro. Burri è giustamente considerato uno dei massimi esponenti dell’Informale internazionale, tendenza che ha dominato la scena artistica negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Ma la sua ricerca va ben al di là dei limiti di questa etichetta troppo generica, essendo molto diversa sia da quella degli altri artisti europei come Fautrier, Dubuffet, Wols o Fontan, sia da quella degli americani come Pollock, De Kooning, Kline e Rothko. Anche se Burri ha partecipato in prima persona al dibattito artistico di quegli anni, rimane per molti versi un grande solitario (anche per il suo carattere scontroso), ed è anche un precursore per molti artisti di tendenze successive (come per esempio l’Arte Povera).
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About baikcinema
Albanesi Dante
(BAIKcinema) Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Laurea in DAMS Spettacolo a Bologna, con tesi su Peter Greenaway (110 e lode). Per la critica cinematografica, ha vinto i Premi Segnocinema 1994, Adelio Ferrero 1994 e Filippo Sacchi 1997. Ha scritto di cinema su quotidiani (“Il Resto del Carlino”), siti internet e riviste, tra i quali: “Cineforum”, “Cabiria”, “La linea dell’occhio”, “Segnocinema”, “reVision”, “Shortvillage”, “Cinemania”, “Fotogenia”, “CinemaSud”, “Proiezioni”, “AccaParlante”, “ilDocumentario.it”. Ha collaborato con il Premio Libero Bizzarri (documentari italiani e internazionali) e il FanoFilmFestival (cortometraggio internazionale). Nel 2002 ha pubblicato il libro Da Cabiria a Moulin Rouge! – Cento anni di musica per il cinema (Cineforum San Benedetto del Tronto). Organizzatore di corsi di cinema per scuole, enti e associazioni. Direttore Artistico delle edizioni 2003-2011 del festival del cinema breve CortoperScelta. Autore di corti di finzione e documentari, con partecipazioni a circa 110 festival italiani e internazionali e circa 30 premi, tra i quali: 42° Mostra del Cinema di Pesaro, FanoFilmFestival 2006, Sottodiciotto di Torino, Videoconcorso Pasinetti di Venezia). Docente di materie cinematografiche all’Ipsia di San Benedetto del Tronto – Indirizzo “Produzione Audiovisive”. View my profile Send me a message |